Sono cresciuta guardando i cartoni animati giapponesi e in generale, sono sempre stata attratta dal Giappone: dalla cerimonia del thè, la moda Lolita, l’ossessione per i tentacoli, qualsiasi tipo d’arte e tutte le cose kawaii.
Quindi, quando venni a sapere che l’ultimo, originale, bagno pubblico giapponese si trovava nel Distretto Internazionale di Seattle, dovetti andare a vederlo.
I sentō (bagni pubblici) erano inizialmente usati durante rituali religiosi nei templi Buddisti e vennero poi aperti al pubblico poichè all’epoca molte case non avevo bagni privati.
Col passare del tempo divennero un posto dove potersi aggregare e rilassarsi.
Uomini e donne venivano separati in bagni diversi e si dovevano seguire regole definite: entrare senza scarpe, risciacquarsi con sapone prima di entrare in vasca e soprattutto era proibito entrare se si avevano tatuaggi (visto che si poteva essere scambiati per un membro dei Yakuza).
(Poster delle regole affisso nei sento)
Hashidate-Yu (il sentō che si trova a Seattle) è situato nel seminterrato dell’Hotel Panama.
Un hotel a 5 piani dedicato ai lavoratori migranti con inclusione di vari negozietti (tipo ristoranti, sarti e dentisti) al piano inferiore.
L’edificio non servì soltanto come dimora temporanea per tanti lavoratori ma anche come luogo sicuro dove depositare i preziosi oggetti di centinaia di internati giapponesi, durante la seconda guerra mondiale.
L’attacco a Pearl Harbor del 1942, portó ad una forzata dislocazione di tutti i discendenti del “Impero del Sol Levante” (cittadini o meno) ai campi d’internamento.
I residenti giapponesi dovettero bruscamente lasciare le loro case, senza essere concesso di portare molto con sé.
(In esposizione al museo pan-asiatico Luke wings di Seattle)
Vi immaginate, l’essere forzati ad abbandonare la propria casa, forzati a decidere quali oggetti di valore (materiali o sentimentali) si debbano lasciare?
Quante domande possano passare per la testa: “Per quanto tempo staremo via?”, “Avró bisogno di una giacca?”, “Cosa succederà alla mia casa?” e soprattutto: “Ritorneremo davvero?”.
Il Signor Takashi Hori, il proprietario del Hotel Panama a quel tempo, offrì il suo scantinato come magazzino nel quale lasciare ciò che non era concesso portare ai campi d’internamento.
Anche Hori fu internato. Quando fu rilasciato, rivendicó il suo Hotel e cercó di restituire tutti gli oggetti ai loro proprietari. Purtroppo, dai campi non ritornarono in molti, lasciando così bauli pieni di vite in sospeso.
(Hotel Panama – 605 1/2 S Main St, Seattle, WA)
Ad oggi, l’Hotel Panama è ancora operativo ma sotto una nuova gestione.
Il bar al piano terra ha una finestra nel pavimento (fatta costruire dal nuovo proprietario) che guarda direttamente nel seminterrato, esponendo tutti gl’effetti personali che ancora giacciono lì.
(Alcune delle cose lasciate all’hotel)
Anche solo camminarci sopra crea un senso d’inquietudine. Una capsula del tempo abbandonata ma non dimenticata, un gorgo di ricordi che crea molte domande e brama altrettante risposte.
Un cimelio che rievoca un’epoca passata, durante la quale non si aveva la lussuria di poter scegliere, epoca durante la quale il proprio cognome poteva portare liberta’ o morte.
In questo scantinato è stata sepolta molto più che mercanzia da barattare al termine della guerra, è stata sepolta speranza.
Speranza di un domani migliore, speranza di essere accettati, speranza di poter condividere la propria cultura. Tutto ció dovrebbe constantemente ricordarci di quanto siamo privilegiati ed allo stesso tempo rammaricarci del fatto che in molti, oggi come ieri, ancora non lo sono.